L’ontologia del lavoro di Nicola Bertellotti si configura come un’antropologia per icone, nella sua più pura essenza etimologica: i suoi scatti ci raccontano dell’Uomo. L’uomo che fu, che ha architettato, edificato e decorato gli spazi in essi presentati; che li ha vissuti e consunti, lasciando le proprie tracce in essi; che ora è polvere e quanto mai viva presenza in quelli che oggi sono i suoi mausolei. Il loro sacro vuoto riecheggia di un solenne requiem che restituisce dignità ai resti del pantagruelico pasto del Tempo: granelli rimasti di ciò che ha saggiato o divorato, trasformati in voluttuose perle di memoria, in bilico tra le valve di un passato resiliente e di un pernicioso futuro. In questo delicato crinale trova interstizio d’accesso l’obiettivo di Bertellotti che, novello arcangelo, penetra tali hortus conclusus temporali, annunciandone, con eterea elezione del punto di vista, rigenerata vita. Prospettiva questa, non meramente fotografica bensì anche letteraria, di rilettura. A governarla è un criterio associativo che procede per suggestioni mitologico/cinematografiche, originando un titolo/citazione per ogni singolo pezzo, quasi poetica nomenclatura attribuita da un surreale conservatore museale.
A proposito di reperti, meglio, in ottica “monumentale”, di rovine, è a questo punto ancora una volta interessante riflettere sul sempre illuminante etimo: il termine “rovina” (lat. ruina, dal verbo ruĕre, precipitare), infatti, subito richiama alla mente l’atto del rovinare a terra, di cadere e sprofondare. Ecco profilarsi la dimensione degli abissi che – tanto letterali, per tornare al parallelismo marino, quanto figurati, come in riferimento all’ambito psichico – rappresentano un ricco coacervo sepolto e sommerso di relitti, detriti e mirabolanti tesori di gioie e cianfrusaglie che, come sostenuto nel famoso saggio dello studioso Francesco Orlando, caro alla poetica di Nicola Bertellotti, popolano il ribollente inconscio letterario. Dove sprofondino le rovine protagoniste delle fotografie oggetto delle sue serie è subito chiaro: macchine del tempo che attivano ricordi di epoche mai esperite, ci traghettano in esse, tramandandone usi e costumi, nel sussurro di un polveroso brano affrescato, nelle spire di un signorile scalone a chiocciola, nei broccati sdruciti di eleganti poltrone e romantiche kliné, nei parati ingialliti e vessati da innumeri lustri. E ancora: nei tasti divelti di un pianoforte sghembo, nelle scenografie di un teatro ridotto in macerie, nelle colonne resistenti alla conquista di moquette di licheni, Bertellotti ci mostra l’annosa competizione tra Natura e Cultura, le cui battaglie hanno costellato la lunga Età Moderna d’Europa e, in primis, d’Italia. Ideale di bellezza da imitare, modello di perfezione cui avvicinarsi con la pittura, nel Rinascimento, la Natura, diviene la sfida da superare per mezzo dell’artifizio pittorico manierista, per poi riappropriarsi, con la giustizia del Tempo, di ciò che la Cultura le ha sottratto. Colonizzando e inglobando con ardite ramificazioni i non richiesti ospiti antropici, così, la Natura conferisce loro quella tardo-settecentesca aura pittoresca del rudere, che tanto ha nutrito puristi come un Ruskin.
Nella beltà dell’abbandono di tali luoghi – scrutati nella silente privata orazione in absentia hominis, straniante eppur tanto più rimarcante, per converso, la vivida presenza umana – la macchina di Bertellotti, vera e propria “camera delle meraviglie”, diviene testimone oculare del patrimonio del Vecchio Continente, catturando e presidiando nel suo scrigno le precarie epifanie di un Bel Paese, il cui tempo di permanenza non ci è dato conoscere. E nel rispetto di ciò che è reperto, senza tangere o contraffare il virgineo velo di polvere che ricopre le seducenti e scarnificate signore della grande Bellezza, la lente del nostro fotografo ci culla in una fantasmale e fantastica rêverie, alle soglie tra mondi.
Eliana Urbano Raimondi
The ontology of Nicola Bertellotti’s work looks like an anthropology composed of icons, in its purest etymological essence: his shots describe Man. Man as it was, the one who designed, built and decorate the spaces photographed: people who lived here and who marked these spaces, and who now is just dust and is very much present in what are now his mausoleums. Their sacred void echoes in a solemn requiem giving dignity to passing time: these are remains of what time has tried or devoured, transforming everything in voluptuous pearls of memory, suspended between a resistent past and a difficult future. lt’s a delicate balance where Bertellotti finds his piace, as a novel archangel, penetrating these times hortus conclusus. and he announces new points of view. His perspective is notjust a photographic one, but also a literary perspective. The criteria of his work come from myths and cinema, and each piece has a title or quotation, a poetic name given by a surreal museum keeper. About this, we could say that, under a monumental point of view, it is good to reflect upon the “monumental” side of the etymology of the word Ruins. “Ruin” (from Latin ruina, from the verb ruere falling) immediately brings to mind the act of falling to the ground, of sinking in. And the abyss, both real and unreal, with reference to the psychic world, represents a sunken world of debris, sunken relics, treasures and bric-a-brac, described in the essay by Francesco Orlando, and liked by Nicola Bertelotti’s poetic, where the ruins are protagonists of the photos collected in his series. These clearly are time machines, activating memories from past times, and they keep habits and customs, under the shape of an extract, hidden in a spirai staircase, in the old tapestry of elegant armchairs and romantic kliné, in the wallpaper consumed by bygone years. Bertellotti tells us stories of old pianos, crumbled theatres, stories of columns resisting dust and lichens, he shows us the classic competition between Nature and Culture, whose battles have been a classic in our Modem time Europe, and mainly in ltaly. ltalian beauty to imitate, a model of perfection which is represented by painting: in the Renaissance, Natura is a defying model to overcome, through Mannerism, and then to catch up on what Culture has stolen. While accepting the non-requested people’s presence, Nature gives them a late XVIII century pictorial aura, which was loved by the purists, like Ruskin. In the beauty of abandoning these places, which we visited in silence in the past, without the man’s presence, Bertelotti’s work creates a real “chamber of marvels”, becoming eye witness of the Old Continent’s patrimony. He captures and encloses in his trove the precarious epiphanies of the Bel Paese, without a time limit. The photographer respects the old and doesn’t tear apart the veil of dust covering the seducing examples of Great Beauty, and his lense takes us to a fantastic reverie, situated on the border of two opposite words.
Eliana Urbano Raimondi